lunedì 17 novembre 2008

La cerimonia del tè


La pianta del tè, originaria della Cina, era ben conosciuta dalla medicina cinese.

I taoisti la consideravano un ingrediente fondamentale dell’elisir dell’immortalità che risiede nel perenne mutamento e permea ogni forma di pensiero.
All'inizio del IX sec. i viaggiatori giapponesi in Cina portarono in patria la passione del tè.

Inizialmente la bevanda era consumata quasi esclusivamente dai monaci buddisti, per mantenersi svegli nei lunghi periodi di meditazione.

Dal XII sec. il tè si diffuse anche al di fuori dei monasteri, ed i giapponesi decodificarono così una vera e propria cerimonia, che non metteva l'enfasi sull'aroma e il sapore della bevanda, ma sulla ritualità della sua preparazione e del suo servizio.

Lo Zen, che tanto aveva assorbito dalle dottrine taoiste, formulò il rituale del tè.

La bevanda divenne un pretesto per praticare il culto della purezza e della raffinatezza, una sacra funzione per vivere un momento di massima beatitudine, una specie di rappresentazione la cui trama si intesseva intorno al tè, ai fiori e ai dipinti.



La Cerimonia del tè nel Giappone antico era un momento elevato della vita, un rituale finalizzato all’educazione dell’individuo.

I modi e i tempi della cerimonia erano strettamente determinati, così come l’arredamento.


Parca la conversazione legata unicamente all’apprezzamento degli utensili. E’ un rapporto senza tempo con la storia e racchiude il mistero dell’ospitalità.

La luce è soffusa, si ode il frusciare dei kimono sui tatami, il rumore dei legni, dell’acqua che bolle col suo gorgogliare sommesso, il vento che passa fra i bambù del giardino. Sembra che in quella bevanda calda sia racchiuso un mistero.
Dopo aver bevuto il tè, l’ospite riconosce spesso che quell’esperienza lo ha cambiato. A questi livelli il tè è una pozione magica che realizza la conoscenza senza spiegarla, accenna a un contegno e scova nel mondo una via di fuga (tutti i maestri del tè hanno familiarità con l’opera poetica di Bashò).


Se talvolta una tazza si rompe, indica la caducità delle cose. Il maestro del tè non si compiace né si avvilisce, semplicemente agisce raggiungendo nella sua arte il punto più alto della sua ricerca: realmente vitale è l’atto del compiere, non ciò che viene compiuto.

Nel giardino, fuori dalla casa del tè, conficcate per terra, le armi dei samurai accarezzate dal vento come a significare una resa. I guerrieri di entrambe le parti gustavano il tè e andavano a morire.


Come tutte le vie zen anche la Cerimonia del tè è fortemente simbolica e profonda.

(La cerimonia completa consiste di tre parti della durata di circa quattro ore: pasto e intervallo sulla panca di attesa in giardino – un gong se ben suonato evoca il vento attraverso la foresta e dà inizio alla seconda parte – si offre il tè denso in polvere stemperato con un apposito strumento fatto con fili di bambù – più tardi il tè più leggero, fresco).In genere si giunge alla cerimonia in anticipo per ammirare il giardino, per meditare e per liberarsi dalle preoccupazioni.

Le calze saranno pulite e bianche, si porterà un ventaglio pieghevole e una busta con fazzoletti di carta raffinata.

Prima dell’arrivo degli ospiti il giardino viene accuratamente ripulito e irrorato d’acqua per dare una sensazione di freschezza e, a seconda della stagione, cosparso di aghi di pino o di foglie autunnali od anche di petali di fiori, per produrre modesta rusticità e imperfezione arcaica.
Alcuni maestri del tè si prefiggono di raggiungere la serenità, altri la purezza e altri ancora la solitudine.


Ad esempio un giorno un maestro collocò alcune piante acquatiche in un recipiente piatto per suggerire la visione di laghi e paludi e sulla parete un dipinto di anatre selvatiche in volo.

Un altro maestro accostò una poesia sulla bellezza della solitudine al mare a un braciere di bronzo a forma di capanna con fiori selvatici che crescono sulle spiagge.

Il percorso nel giardino per arrivare alla casa del tè è caratterizzato da una speciale passatoia di pietre che sono state scelte con grande cura per la loro regolare irregolarità e bellezza di linee che richiamano tuttavia ad una grande attenzione e presenza per non cadere.Prima di entrare nella casa del tè ognuno compie gesti simbolici di purificazione nello scubai (quattro ideogrammi: ognuno possiede tutto ciò che basta a se stesso) risciacquandosi le mani ed anche le labbra.
L’igiene è della massima importanza.

Nessuno indossa anelli per non graffiare le tazze e nemmeno orologi che schiavizzano la mente.

La porta che conduce alla sala da tè è bassa e obbliga ogni invitato a inchinarsi come gesto simbolico di umiltà.

Ci si inchina davanti al rotolo di pergamena con versi sacri ed anche alla composizione ciabana che in genere è semplice, essenziale e non profumata perché il protagonista è il tè. Ognuno mescola il braciere e ci si inchina nuovamente. Si ammirano le brocche di ceramica accanto al bollitore con apprezzamento del suono dell’acqua che bolle gorgogliante (vento di pino).
Il maestro si inchina ai suoi invitati ed essi rispondono allo stesso modo, poi cammina con passi misurati sollevando poco i piedi dal pavimento per lasciare appena udire il fruscio dei tatami là dove il suo piede appoggia.

L’acqua che avanza viene versata nel bollitore con gesti studiati, affinché produca un piacevole gorgoglio nel momento in cui l’acqua del mestolo raggiunge il bollitore.Il maestro si inchina prima di porgere la ciotola con il tè, che viene presentata dal suo lato migliore all’invitato il quale la rigira con cura verso il maestro in segno di rispetto. Vengono anche offerti su un elegante vassoio dei pasticcini di circa due centimetri e mezzo. Il primo invitato che prende il vassoio lo porge con un inchino al secondo, quasi scusandosi di essersi servito prima e così proseguendo con gli altri ospiti. La regola proibisce ogni tipo di conversazione verbosa, anche l’adulazione è proibita.

Tutto converge sull’osservazione degli arredi, degli utensili e del rotolo di pergamena.

Al giorno d’oggi i maestri intagliano a mano i loro cucchiaini da tè, ricavandoli dalla canna di bambù ed è motivo di orgoglio.

Nella sala del tè la parola chiave è “semplicità”.
L’arrendevolezza genera forza, la resistenza crea debolezza: nel cielo eterno vi è perpetuo rinnovamento, questo insegnano i maestri. La cerimonia del tè si basa sull’espressione di quattro concetti fondamentali:
wabi: vita scevra dal lusso e dalla falsità;
sabi: stesso significato riferito ai luoghi e alle cose, ma vuole anche indicare imperfezione arcaica come bellezza;
hibui: buon gusto, sobrietà;
fura: modo di vivere zen - puro godimento della vita - identificazione del sé creativo con lo spirito. Gli amici sono i fiori, gli animali, le pietre, l’acqua, i temporali e la luna.



(Francesca Famà Casarin)

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