Per recuperare tutti i giorni passati lontani dal blog, posto ora, una moltitudine di parole, benché sappia quanto sia scoraggiante trovarsi davanti una specie di poema…. :)
Sono comunque parole tratte da un libro di Robert Darnton, citato in fondo.
"Quello attuale è un periodo di transizione, nel quale la modalità a stampa e quella digitale coesistono e le nuove tecnologie diventano presto obsolete. Stiamo già assistendo alla scomparsa di molti oggetti familiari: la macchina per scrivere, ormai relegata nei negozi di antiquariato; la cartolina postale, una curiosità; la lettera scritta a mano, un compito superiore alle capacità della maggior parte dei ragazzi, che non sanno più scrivere in corsivo; il giornale quotidiano, estinto in molte città; la piccola libreria, sostituita dalle grandi catene di distribuzione, a loro volta minacciate dai distributori online, come Amazon. E la biblioteca?
Sembrerebbe l'istituzione più arcaica di tutte. E tuttavia il suo passato fa ben sperare per il suo futuro, perché le biblioteche non sono mai state magazzini di libri. Sono sempre state e sempre saranno centri di studi e di cultura. La loro posizione centrale nel mondo del sapere le rende idealmente adatte a mediare tra le due modalità di comunicazione, a stampa e digitale. Anche i libri possono accoglierle entrambe. Siano stampati su carta o immagazzinati su un server, i libri costituiscono il corpo del sapere e la loro autorevolezza deriva da elementi che trascendono la tecnologia usata per produrli.
Essa è dovuta in parte agli autori, benché i libri fossero oggetto di reverenza ben prima che nel Settecento prendesse forma il culto dell'autore. Come sottolineano gli storici del libro, gli autori scrivono il testo, ma il libro è materialmente fatto da professionisti specializzati, e questi ultimi esercitano funzioni che vanno ben oltre la manifattura e la diffusione di un prodotto. Gli editori sono come dei guardaportone, che controllano il flusso della conoscenza. Tra l'illimitata varietà di materiale suscettibile di essere reso pubblico, essi, sulla base della loro competenza professionale e delle loro personali convinzioni, selezionano ciò che a loro avviso si venderà o merita di essere venduto. I giudizi degli editori, informati a una lunga esperienza nel mercato delle idee, condizionano ciò che raggiungerà i lettori, e i lettori, in quest'epoca di sovraccarico di informazioni, hanno più che mai bisogno di affidarsi ad essi. Selezionando i testi, revisionandoli, impaginandoli in modo che siano leggibili e portandoli all'attenzione dei lettori, i professionisti del libro forniscono servizi che sopravvivranno a ogni cambiamento tecnologico. [...]Ma perlopiù noi bibliotecari tenderemmo a sottoscrivere i princìpi scolpiti in bella vista nelle nostre biblioteche pubbliche. "Aperta a tutti" si legge sopra l'ingresso principale della Public Library di Boston; e sulla parete della sala del Consiglio di amministrazione della Public Library di New York sono incise in oro queste parole di Thomas Jefferson: "Considero la diffusione dei lumi e dell'istruzione la risorsa più sicura per migliorare la condizione umana, promuovere la virtù e favorire la felicità dell'uomo". Eccoci tornati all'illuminismo
Boston - Public Library |
La Repubblica degli Stati Uniti fu fondata sulla fede nel principio cardine della Repubblica delle Lettere del Settecento: la diffusione dei lumi. Secondo Jefferson, l'illuminismo si realizzava per il tramite degli scrittori e dei lettori, dei libri e delle biblioteche – specialmente delle biblioteche: quella della sua residenza di Monticello, quella dell'Università della Virginia e la Biblioteca del Congresso.
Tale fede è incorporata nella Costituzione degli Stati Uniti. L'articolo 1, comma 8, istituisce il copyright e i brevetti soltanto "per un periodo limitato" e fatto salvo il fine superiore della promozione del "progresso della scienza e delle arti utili".
I Padri fondatori riconobbero il diritto degli autori a un equo ritorno economico per la loro fatica intellettuale, ma posero il bene pubblico al di sopra del profitto privato.
Come si misura l'importanza relativa di questi due valori? Come ben sapevano gli estensori della Costituzione, il copyright fu creato in Gran Bretagna nel 1710 dallo Statuto di Anna Stuart allo scopo di mettere un freno alle pratiche monopolistiche della London Stationers' Company, la corporazione dei librai editori londinesi, e anche, come proclamava il suo titolo, "per la promozione del sapere". All'epoca, il Parlamento stabilì la durata del diritto d'autore in quattordici anni, rinnovabili una sola volta. I librai editori cercarono di difendere il proprio monopolio reclamando la durata perpetua del copyright in una lunga serie di cause giudiziarie. Ma persero la guerra con la sentenza definitiva del caso Donaldson contro Beckett, nel 1774.
Quando, quindici anni più tardi, si riunirono per stilare la Costituzione degli Stati Uniti, gli estensori accolsero la concezione che aveva prevalso in Gran Bretagna. Ventotto anni parvero loro un periodo sufficientemente lungo per proteggere gli interessi di autori e editori. Superato quel limite, doveva prevalere l'interesse pubblico. La prima legge sulla proprietà intellettuale – intitolata come quella inglese alla «promozione del sapere» – adottò a sua volta il limite di quattordici anni rinnovabili per altri quattordici.
Qual è la durata del copyright oggi? Secondo la legge Sonny Bono del 1998 sul prolungamento del copyright (nota anche come "legge per la tutela di Topolino", perché il personaggio di Walt Disney stava per entrare nel pubblico dominio), oggi si estende per settant'anni dopo la morte dell'autore. In pratica significa oltre un secolo. La maggior parte dei libri dati alle stampe nel Novecento ancora non rientra nel pubblico dominio. Per quel che riguarda la digitalizzazione, l'accesso al nostro patrimonio culturale si arresta generalmente al 1° gennaio 1923, data oltre la quale un numero imprecisato ma altissimo di libri è protetto da copyright. E su quel confine rimarrà... a meno che qualche esponente di interessi privati non si assuma il compito della digitalizzazione del nostro patrimonio bibliografico, lo confezioni per i consumatori, con tanto di fiocchi costituiti da accordi legali privati, e metta in vendita i pacchetti a scopo di lucro, distribuendo i profitti tra gli azionisti. Allo stato attuale, per esempio, Babbitt, di Sinclair Lewis, pubblicato nel 1922, rientra nel pubblico dominio, mentre un altro suo romanzo, Il figlio di Giuda, pubblicato nel 1927, non lo sarà fino al 2022.
[......]
Quando colossi commerciali come Google mettono gli occhi sulle biblioteche, non vi vedono soltanto dei templi del sapere. Vi vedono risorse potenziali o, come dicono loro, dei «contenuti» pronti per essere sfruttati. I fondi librari delle biblioteche, messi insieme lungo i secoli con immenso dispendio di denaro e di energia, possono essere digitalizzati in massa a costi relativamente contenuti — milioni di dollari, certo, ma nulla a paragone dell'investimento che sono costati.
Le biblioteche esistono per promuovere un bene pubblico: per "favorire la conoscenza", una conoscenza "aperta a tutti". Le imprese capitalistiche esistono per fare soldi a beneficio dei loro azionisti — anche questa un'ottima cosa, perché il bene pubblico dipende da un'economia fiorente. Tuttavia, se permettiamo la commercializzazione del contenuto delle nostre biblioteche, ci scontriamo inevitabilmente con una contraddizione di fondo. Consentire che un soggetto privato digitalizzi le raccolte delle biblioteche e ne venda il risultato con modalità che non garantiscono il più ampio accesso possibile equivarrebbe a ripetere l'errore compiuto quando le case editrici vollero sfruttare il mercato delle riviste scientifiche, ma su una scala infinitamente più grande, perché questo trasformerebbe Internet in uno strumento per la privatizzazione di un sapere che attiene alla sfera pubblica. Nessuna mano invisibile interverrà a correggere il disequilibrio tra bene privato e bene pubblico. Solo il pubblico lo potrebbe fare, ma chi si farà portavoce del pubblico? Certo non i legislatori che hanno prodotto la legge a tutela di Topolino.
Toronto Library |
Non mi si fraintenda: so che le aziende devono rispondere ai loro azionisti e ritengo che gli autori abbiano diritto a un ritorno economico sul frutto del loro ingegno e che gli editori meritino di trarre un guadagno per il valore che aggiungono ai testi forniti dagli autori. Ammiro molto la straordinaria abilità di creare hardware, software, motori di ricerca, tecniche di digitalizzazione, algoritmi capaci di ordinare le risposte in base alla loro rilevanza. Riconosco l'importanza del copyright, anche se mi sembra che il Congresso l'abbia definito meglio nel 1790 che non nel 1998.
Ma neppure noi possiamo starcene seduti a guardare, fiduciosi che le forze del mercato opereranno per il bene pubblico. Dobbiamo coinvolgerci, batterci con vigore, riconsegnare al pubblico il suo giusto predominio. Quando dico "noi", intendo dire "noi, il popolo", noi che abbiamo creato la Costituzione e che dovremmo fare in modo che i princìpi illuministici sui quali è fondata informino le realtà quotidiane della società dell'informazione. Sì, digitalizzare è necessario. Ma, ciò che più conta, è necessario democratizzare. Dobbiamo aprire l'accesso al nostro patrimonio culturale. In che modo? Riscrivendo le regole del gioco, subordinando gli interessi privati al bene pubblico, traendo ispirazione dalla Repubblica delle Lettere degli illuministi per creare una Repubblica digitale del sapere.
Tutto quanto riportato sopra è solo una piccolissima parte di un libro che ho trovato molto interessante. L’autore è Robert Darnton – il titolo è “Il futuro del libro” – Edizione Adelphi, Milano, 2011, Saggi 67 - pag. 276