Di Joseph Losey, regista americano nato il 14 gennaio del 1909 a La Crosse nel Wisconsin e morto a Londra il 22 giugno del 1984, conosco bene due film:
Messaggero d'amore e Il Servo.
Sul quotidiano La Stampa di oggi
è scritto fra l'altro quanto segue:
'A Torino la retrospettiva a cura di Emanuela Martini prevede i trentasette lungometraggi e i corti firmati da questo atipico autore (Joseph Losey)cresciuto nella stessa cittadina di un altro dei grandi del cinema Usa quale Nicholas Ray.
Laureatosi all’università di Harvard, giornalista per qualche anno al prestigioso "New York Times" e poi, a partire dagli anni Trenta, approdato nel mondo dello spettacolo prima come regista teatrale e poi cinematografico.
Il suo esordio sul grande schermo risale al 1948: "Il ragazzo dai capelli verdi", metafora in chiave fantastica della crescente intolleranza sociale che rappresentò l’inizio di un’intensa e ricca carriera, non priva di difficoltà.
Complicazioni derivanti in particolare dal suo esilio: nel 1951 quando era in Italia per girare "Imbarco a mezzanotte", pellicola uscita al cinema con la firma Andrea Forzano, Losey venne infatti chiamato negli Stati Uniti a testimoniare di fronte al Comitato per le attività antiamericane della Camera dei Rappresentanti, il comitato incaricato di "sradicare" i comunisti dall'industria cinematografica. Egli non accolse l’"invito" e scelse di andare a vivere in Inghilterra.
L’impronta teatrale del cinema di Losey deriva dall’influenza che ebbe su di lui Bertolt Brecht, di cui trasferì sul palcoscenico un’acclamata versione di "Galileo" con Charles Laughton mattatore, e dalla collaborazione nata con Harold Pinter, a cui si deve la sceneggiatura di capolavori del cineasta americano come "Il servo", L’incidente" e la Palma d’oro al Festival di Cannes 1971 "Messaggero d’amore".'
Trovo poi su un articolo scritto da Paola Di Giuseppe
“La mia unica ambizione è dominarti
Hugo Barrett, uno splendido Dirk Bogarde, è The Servant. Siamo a Londra,lontani,ma non troppo, i tempi dei processi a Oscar Wilde, è palpabile quel sottile disagio che impone di reprimere inconfessabili pulsioni in gesti compassati, la comunicazione verbale in formulari rigidi, la gestualità in spazi claustrofobici, il fluire delle scene in specchi bloccati dentro cornici barocche. E’ un ordine mentale che si riflette in un ordine sociale, il ribaltamento di quest’ordine non produce la risata liberatoria della commedia. Qui il gioco è al massacro,il vincitore ha diritto di vita o di morte sul vinto, chi era servo prima sarà poi lui a schiacciarti, basta solo che sia capace di arrivare fino in fondo. Barrett il raffinato proletario, riesce. E’ evidente fin dalla prima scena chi sarà il vincitore, Losey e il suo grande fotografo Douglas Slocombe usano con maestria movimenti di macchina, giochi di luci e ombre,bianco e nero. Tutto è fatto percepire a fior di pelle, sembra un racconto ma non lo è, in realtà non succede nulla,eppure per 116 minuti abbiamo la sensazione continua che stia per accadere qualcosa di tremendo. Dal romanzo di Robin Maugham, sceneggiato da Harold Pinter, tutto si concentra lungo i tre piani di una casa-feticcio, straniante e alienante come si conviene ad un’abitazione di buona borghesia o nobiltà in declino di un’Inghilterra tra gli anni ‘50 e ‘60, dove arriva Losey in fuga dal maccartismo degli States e trova che si può licenziare dal lavoro qualcuno per omosessualità. Tony e Barrett, Vera e Susan mettono in scena un gioco delle parti in cui,con movimento circolare e progressivo, queste si ribaltano,e il dominus diventerà il servus, le donne resteranno figure-spalla,importanti per segnare tappe successive e inserire uno dei due assi dell’azione,la logica sessuale come meccanismo di gestione del potere, ma l’asse centrale resta il potere fine a sé stesso, e questo finisce tutto nelle mani di Barrett. "La mia sola ambizione è servirti",dice Barrett a Tony. Partendo da questa specie di ossimoro,Barrett condurrà il gioco fino al limite estremo, là dove i due termini si conciliano e potrebbe dire,ma non ce n’è più bisogno, "La mia unica ambizione è dominarti". La rappresentazione di psicologie a rischio in un luogo bloccato, uno dei tratti distintivi del Losey migliore, qui trova la sua espressione più lucida e immaginifica, Barrett s’insinua nella vita di Tony con una maschera perfetta, tanto quanto è perfetta la maschera di un film che sembra ancorato alla realtà, indugia con minuzia su oggetti tangibili di una quotidianità rassicurante, ma si svolge tutto nell'involucro mentale dei personaggi, di cui seguiamo le evoluzioni come se fossero reali, salvo chiederci, alla fine, chi siano veramente, di dove vengano, che progetti abbiano. Nulla, solo epifanie improvvise per dar corpo a metafore,violenti rapporti di classe, tensione erotica uomo/uomo che si riproduce e si auto-compensa, rimossa, in quella uomo/donna. Alla fine ci rendiamo conto di aver vissuto l’esperienza straniante di uno spazio claustrofobico,intorno al quale lo spazio esterno è solo un pretesto descrittivo,gli alberi scheletriti della strada lo avvolgono come una ragnatela, tutto è succube di quello che accade dentro, dove la macchina si muove agile, sottraendo fisicità ai corpi e assegnando loro i caratteri propri di un incubo." |