lunedì 19 gennaio 2009

Le maree di Virginia


L’Ouse scorreva vicino alla sua casa.
Deve aver percorso in pochi minuti, l’ultima strada – nelle tasche tanti sassi pesanti.
E poi, una volta sulla riva, ha continuato a camminare, finché è scomparsa, sotto l’acqua, nel profondo.

Era il 28 marzo del 1941: Virginia Woolf era finalmente riuscita a scappare dalle voci che la infestavano, dalla sua pena costante e da una vita troppo stanca.

Immaginiamo una famiglia: la nostra, o lo stereotipo – non necessariamente edulcorato e pubblicitario – attraverso il quale ricamiamo nella nostra testa l’immagine di un nucleo di persone coeso, affettuoso, sicuro (un porto franco).

Poi immaginiamo tutte le infinite varianti di questo modello: le intrusioni, i fallimenti, gli investimenti emotivi traditi, il caos.

Ecco, la storia di Virginia Woolf rientra nella seconda ipotesi: un’esistenza spuntata su un terreno senza solidità.


La bella Adeline Virginia Stephen nasce a Londra nel 1882, in una casa già stravolta da non pochi avvenimenti: i suoi genitori, sir Leslie e Julia, sono entrambi vedovi, entrambi già genitori.

Dai precedenti matrimoni, la donna ha avuto tre figli (George, Stella e Gerald Duckworth); il signor Stephen ha invece un’unica bambina, Laura, con un grave ritardo mentale che in seguito determinerà la sua istituzionalizzazione fino alla morte.

Ma Adeline non è la primogenita della matura coppia: ci sono già Vanessa (1879), Thoby (1880) e poi verrà Adrian (1783).

E’ una situazione complessa, soprattutto per quei tempi, in cui il concetto di “famiglia allargata” non si è certo ancora imposto – ma è anche una situazione stimolante.

Perchè il primo suocero di sir Leslie non è altri che il celebre letterato William Thackeray e in generale la fama di Stephen come editore critico biografo e intellettuale attira nel suo salotto i grandi nomi dell’epoca: la sua seconda consorte ha per zia la notevole fotografa Julia Margaret Cameron e poi vengono spesso a visitarli Henry James e George Eliot, solo per dirne un paio.

Non sorprende dunque che i piccoli crescano con notevoli inclinazioni per gli interessi culturali, per l’arte – la stessa mamma Julia, con la sua bellezza, è stata una modella per i pittori preraffaelliti.



L’infanzia ha poi momenti particolarmente piacevoli nella casa estiva, in Cornovaglia: è che poi sono iniziati i lutti.

Quando Virginia è appena tredicenne sua madre muore e lo stesso accade per la sua cara sorellastra Stella, un paio d’anni dopo – una sorellastra amorevole che tentava di sostituire il genitore mancante.


E’ qui che si colloca il primo “collasso di nervi” di Virginia, le prime esperienze con un fortissimo stato depressivo che andrà incrementandosi dopo la morte del padre, nel 1904: per un breve periodo la giovane viene anche ricoverata.

Al di là di quanto appariva, erano anche altri i motivi che causavano queste frequenti crisi: gli abusi sessuali subiti dai fratellastri George e Gerald, sia da lei che dall’adorata sorella Vanessa – entrambe orfane.

Decisero dunque, col fratello Adrian, di trasferirsi assieme in Bloomsbury.

E fu lì che si creò la compagnia di intellettuali noti come “Il gruppo Bloomsbury”, di cui facevano parte Lytton Stachey, Clive Belle e Leonard Woolf, che sposò Virginia nel 1912, pur lasciando i biografi perplessi circa alcuni aspetti della loro vita matrimoniale.

La coppia, ben assortita mentalmente ed affettivamente, fondò la Hogarth Press, casa editrice che avrebbe pubblicato tanta parte dei lavori della scrittrice – ma la loro collaborazione era eterogenea e costante: era Leonard, con la sua pazienza e la sua dedizione, a sostenerla negli attimi di sconforto e malattia. Era Leonard a spronarla nella sua attività artistica, a correggere e mettere assieme le parole di lei, talvolta.


Un uomo, un marito, una presenza decisiva nella vita della Woolf.

Ma non era l’unica persona importante della sua vita: aveva un rapporto quasi simbiotico con la sorella Vanessa e – soprattutto – ebbe una lunga storia d’amore con la poetessa Vita Sackville West (è ormai dato per assordato che le preferenze sessuali di Virginia fossero rivolte alle donne), il che non contrastava col modo di vedere il mondo del loro “gruppo”, in cui la monogamia veniva, se non derisa, sconsigliata.


Eppure, per tutta la sua vita, malgrado questi incontri densi, malgrado le numerose opere prodotte, non ci fu per lei un periodo di costante equilibrio psicologico.

I suoi gravi problemi nella sfera dell’umore, il “sentire voci”, il senso di estraniazione e angoscia la seguivano per lunghi mesi, lasciandola spossata e obbligando il medico a raccomandarle un assoluto ed estenuante riposo.


Il disturbo bipolare, volendo sintetizzare, è caratterizzato dall’alternarsi di fasi maniacali a fasi depressive – queste ultime tendono ad essere assai più durature.


E’ questa una classificazione semplicistica, volendo, perché di fatto questa patologia, per essere precisi, può differenziarsi come disturbo bipolare I, disturbo bipolare II e ciclotimia, ma che dà un quadro della situazione: un ondeggiare devastante tra profondi stati di tristezza, disperazione, vuoto e angoscia e un’espansione dell’umore che sfocia nell’irritabilità, in una grandiosità eccessiva, in un’eccitazione che può diventare pericolosa.

Nel caso della Woolf, l’ipotesi più probabile è che si trattasse di un disturbo bipolare II, in cui prevale la componente di eposi di di depressione maggiore e la presenza di almeno un episodio ipomaniacale (più sfumato rispetto al maniacale).

E’ una malattia altamente invalidante che, nella Woolf (come del resto capita) ha anche sintomi psicotici (allucinazioni uditive) e che spesso porta al suicidio, con un rischio trenta volte maggiore di quello della popolazione generale.


E’ ormai assodata la presenza di una componente genetica nella genesi del disturbo, ma è comunque – come per la gran parte del disagio mentale – una realtà multifattoriale, facile da comprendere se si considera il vissuto di Virginia.

La prima crisi risale all’adolescenza e ancor più alla prima vita adulta, come usualmente accade.

Ma qui le ragioni si moltiplicano: Virginia perde in un decennio le tre figure di riferimento e investimento affettivo – madre, sorellastra, padre.

Appena prima aveva visto partire, per sempre, Laura, la figlia di primo letto del padre, con una grave disabilità mentale. Le sue urla avevano spaventato Virginia bambina, e questa sfortunata ragazzina – quasi nascosta ma amata dall’addolorato genitore, è come il simbolo di una coscienza nascosta, di un monito, di una paura: che ci fosse anche in lei, in loro altri, qualcosa che non andava?

Rimasta con l’adorata Vanessa, che però è pressoché una coetanea, le due hanno da affrontare quanto mai era stato ammesso a viso aperto, almeno fino ad allora (anche se troverà poi sfogo negli scritti del futuro): le molestie sessuali da entrambe subite, da parte dei fratellastri maggiori (questo salvifico divedere tra “noi Stephen” e “Loro Duckworth”).

Orfane, con i rimanenti membri della famiglia che sono causa di violenza e disintegrazione del sè, l’emancipazione delle Stephen a Bloosmbury appare quasi necessaria.

E qui l’incontro prima con Leonard e dopo con Vita: il primo è il padre, la sicurezza, il conforto, l’appoggio incondizionato, il contenitore ed il contenimento di un ego fragile, fluttuante. E’ il principio organizzatore che guarisce, unisce e corregge, non solo pagine.

E Vita – l’innamoramento, volendo anche azzardare, il narcisismo: una dedizione che riversa su di una donna che non è sè, perché per sè Virginia ha spesso rimostranze e rancori.

Il senso di colpa assurdo ma tipico delle vittime di abuso sessuale, il suo sentirsi inadeguata, difficile, sbagliata – tutti i suoi cari muoiono, e poi quei due, che le hanno fatte quelle cose di cui forse anche lei (così verosimilmente pensa) ha qualche responsabilità.

Senza voler indagare l’ovvia relazione tra la frigidità sessuale verso il marito e gli abusi (non sembra si sia mai consumato le nozze), è indubbia la capacità di Virginia di creare a livello affettivo dell relazioni stabili e profonde: con Vanessa, con Vita, ma anche con Leonard, cui era affezionatissima e legatissima.

Solo con se stessa, non riusciva a intendersi.

E attendeva con terrore ogni volta più forte, il ritorno di quelle voci, di quel senso di morte e dissoluzione che quasi desiderava, stesa nel suo letto per settimane o anche più.

E poi c’era la scrittura – il contenitore, dove mettersi ed essere “corretta”, sistemata, coltivata.

Da “La crociera”, nel 1913, fino al postumo “Diario di una scrittrice” del 1953, malgrado il disagio e la sofferenza, Virginia ha avuto il tempo di proiettarsi e raccontarsi raccontando, in molti celebri opere: per esempio “La signora Dalloway”, in cui le voci che Virginia sente nella testa sono invece qui monologo interiore della protagonista (questo parlarsi dentro, così tipico di Virginia), in un flusso di ricordi e associazioni che diviene quasi un percorso psicoterapeutico di disvelazione.

E intanto si compone anche un meraviglioso affresco dell’Inghilterra di allora, del ruolo della donna, delle costrizioni, della falsità dell’apparire della protagonista, apparentemente ben inserita nell’alta società. E c’è anche il rapporto ambiguo con un’amica libertina e quasi scandalosa.

In “Orlando” questo tema si fa ancora più forte, visto che è praticamente un inno ai sentimenti per Vita: la protagonista è un’androgina creatura che attraversa i secoli, come donna e come uomo (il figlio di Vita arrivò a definire “Orlando” “La più lunga lettera d’amore della storia”).

E altro magnifico lavoro è “Le onde”, in cui sei amici si alternano in un monologo, in cui si intrecciano ricordi e desideri, come onde che si ritraggono, come le onde di rinascita e angoscia che ciclicamente percuotevano Virginia stessa.

Nelle ultime parole al marito, prima di suicidarsi, gli esprimeva tutta la sua gratitudine, per averlo avuto accanto. Il loro, sesso o no, era stato un matrimonio notevole.

La gratitudine che mostra, il senso di colpa per averlo reso compartecipe del suo dolore, un dolore antico che è stato guarito solo dalle amorevoli cure di lui e dalla scrittura in cui si è riversata lei stessa, per riaversi pulita con contorni precisi – lei, così abile nei ritratti psicologici.

La sua infanzia è stata segnata dalla violenza, vergognosa e nascosta; la giovinezza è stata tormentata da lutti e solitudine. E così l’età adulta si è sviluppata creativamente fertile ed emotivamente devastata.

Ma in tutto il fragore delle sue voci interiori, in tutto lo smarrimento della sua orribile depressione, oggi Virginia ci parla con una modernità e una capacità analitica quasi imbarazzanti: conosceva l’animo umano e ce lo ha descritto, nei momenti in cui la tristezza l’abbandonava – come onde – e ci veniva lasciata l’autrice.

Un movimento naturale, un ciclo: la pena e il ritorno.

Kotnik D., “Virginia Woolf. La Minerva di Bloomsbury”, Rusconi 1991;
it.wikipedia.org/wiki/Virginia_Woolfhttp://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/woolf.htm
www.online-literature.com/virginia_woolf/DSM IV-tr
www.ipsico.org/disturbo_bipolare.htm
www.psico-terapia.it/menus/depressione/disturbo-bipolare.php
www.stopmobbing.org/article.php3?id_article=14 GHISI MIGLIARI, A. (2007).
Le Maree di Virginia La Woolf e il Disturbo Bipolare. Firenze: PsicoLAB. Visionato il 23/11/2007 su psicolab.net - articolo di    Alessia Ghisi Migliari

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